“Fiöi dal Nos” – Ladinità nonesa e solandra – Cultura e Lingua

 

Fiöi dal Nos

“Ladinità nonesa e solandra. Cultura e lingua” – documentario video

MOTIVAZIONE

Riscoperta delle antiche radici storiche, culturali e linguistiche delle Valli del Noce.

AUTORE “GUIDA” 

El Brenz è l’associazione Storico Culturale Linguistica delle Valli del Noce, senza scopo di lucro, apolitica e apartitica, che opera nei settori culturale, editoriale, formativo e ricreativo al fine di far riscoprire e valorizzare la storia, la cultura, la lingua, le tradizioni ed i valori delle comunità delle Valli del Noce; attività che svolge attraverso corsi, serate, incontri con esperti e studiosi, rievocazioni e concerti, informazione tramite web grazie al sito www.elbrenz.eu e a Facebook (pagina El Brenz). Attenzione anche all’editoria con la pubblicazione di atti, memorie, ricerche su usi e costumi. Nel settore formativo inoltre, c’è l’impegno a sviluppare oltre a corsi anche convenzioni con scuole ed enti locali, gemellaggi, viaggi d’istruzione, scambi culturali.

L’associazione è stata costituita nel 2009, ha sede a Malé, Via Trento 40. Conta attualmente 72 soci di età compresa tra i 18 ed i 90 anni.

  • Presidente: Bresadola Cristian

  • Vice presidente: Cimarosti Marco

  • Segretario: Milena Comini

  • Consiglieri:Brusegan Federico, Antonioni Paolo, Daprà Andrea, Pedrotti Massimo, Valentinotti Monica, Paternoster Daniele

 

 

 

L’IMPORTANZA DELLA STORIA (Ricerca sulla quale si basa il documentario)

I RETI

Intorno al 500 a.C. si assiste alla comparsa, in Trentino-Alto Adige, bassa Engadina e Vorarlberg, della cultura di Fritzens-Sanzeno, che prende il nome da due località poste, rispettivamente, nella Valle dell’Inn, in Austria, e in val di Non in Trentino. Questa cultura nasce dallo sviluppo della precedente cultura di Luco arricchita di elementi provenienti dall’area padana. La sua diffusione in un’area geografica ben definita è dimostrata dalla presenza di particolari tipi di ceramica, strumenti di ferro (asce, zappe, chiavi) nonché di oggetti ornamentali in bronzo. Nella stessa zona vi sono anche le medesime strutture abitative, pratiche di culto e iscrizioni, realizzate con caratteri propri dell’alfabeto di Bolzano o di Sanzeno, corrispondente ad una variante di quello nord etrusco, adattato alle esigenze della lingua locale.La cultura di Fritzens-Sanzeno è considerata propria della popolazione retica perché esiste una corrispondenza tra un’estesa parte dell’area assegnata a quelle genti dalle fonti antiche e il territorio che la ricerca archeologica ha dimostrato essere stato interessato da tale cultura.

Strabone1 (63 a.C. – 19 d.C.), ad esempio, scrisse che la popolazione dei Reti occupava l’area alpina centro- orientale, oltre Como e Verona, fino alle terre solcate dal Reno e al lago di Costanza. Ma proprio in questa zona, che le fonti affermano occupata dai Reti, le scoperte archeologiche hanno permesso di riportare alla luce strutture abitative, oggetti vari, dalle uguali caratteristiche tanto da poterli considerare elementi distintivi di un’unica cultura, appunto quella di Fritzens-Sanzeno.

L’oggetto più caratteristico della cultura retica è una tazza in ceramica dal fondo ombelicato e dal profilo ad “S”. I Reti hanno lasciato numerose prove della loro presenza sul territorio trentino, non solo nelle valli principali, ma anche in quelle interne. È stato possibile così ritrovare i resti di veri e propri villaggi, costruiti su alture (Fai della Paganella – località Dos Castel, Castel Tesino), su terrazzamenti (Montesei di Serso, Sanzeno), sul fondovalle (Nomi, località Bersaglio), presso conoidi (Zambana). Gli insediamenti erano costituiti da case seminterrate, di forma quadrangolare, perimetrate da muretti a secco e dotate spesso di un corridoio di accesso. Le pareti e il tetto delle abitazioni dovevano essere realizzati in legno o paglia, materiali deperibili e facilmente infiammabili, come dimostrano le tracce di frequenti incendi. L’economia delle genti retiche era piuttosto varia. Oltre alla caccia sono state trovate infatti prove dello svolgimento dell’attività pastorale nonché dell’allevamento di capro-ovini, buoi, cavalli, polli. Sono state trovate anche molte roncole, strumento che rendeva più produttivo il lavoro di raccolta intensiva di fronde arboree da immagazzinare come foraggio invernale per gli animali. Vi era anche un’attiva produzione agricola, come dimostrano i resti di semi di frumento, orzo, lenticchie, rinvenuti durante gli scavi archeologici. È ampiamente attestata anche la produzione di vino per la presenza di vinaccioli, recipienti di bronzo destinati a contenerlo, strumenti di lavoro, utensili per costruire botti (tracce di botti, ad esempio, sono state rinvenute a Nomi in località Bersaglio), e scene figurate che compaiono sulle situle, ovvero un secchiello di una lamina sottilissima di bronzo, decorata all’esterno con la tecnica dello sbalzo o con il bulino. L’abitudine di decorare le situle si diffonde tra il VII e il IV secolo a.C. in un’area geografia estesa dal Po al Danubio e dà origine ad una vera e propria “arte delle situle”. Trae origine probabilmente dal mondo etrusco con cui i Reti ebbero sicuramente molti contatti, come dimostra la presenza in varie località trentine di macine a leva e di utensili domestici di vario genere come gli alari. I Reti attribuivano molta importanza alla sfera sacra e lo dimostrano i rinvenimenti riferibili ad aree sacre e roghi votivi; veri e propri ex voto per lo più bronzetti figurati recanti dediche alle divinità a Sanzeno, o ciottoli incisi a Montesei di Serso, ossa con iscrizioni o lamine di bronzo ritagliat a Mechel. In questo sito, frequentato dal Bronzo recente fino all’epoca romana (III/IV sec. d.C.) sono state portate spesso come offerte fibule in miniatura, corna di cervo con iscrizioni, frammenti di situle figurate. AStenico in località Calfieri, sono state rinvenute le tracce di un luogo di culto frequentato già nel Bronzo medio con roghi votivi. Da qui proviene un particolare tipo di contenitore ceramico, “il boccale tipo Stenico”, rinvenuto insieme a coppe tipo Sanzeno con segni caratteristici dell’alfabeto retico anche a Monte S. Martinoai Campi di Riva.Roghi votivi sono attestati anche a La Groa diSopramonte, alle pendici del monte Bondone. In questo periodo era praticato il rito funebre dell’incinerazione: all’interno di urne o direttamente nel terreno erano posti solo alcuni resti selezionati della cremazione e vari oggetti di corredo tra cui monili, amuleti, vasi.

Reti erano un popolo nativo dell’area alpina centro-orientale. Erano bravi artigiani (la Seconda Età del Ferro coincide praticamente con la loro cultura) e pacifici montanari, che scendevano fino alla pianura veronese per barattare oggetti e bestiame. Di certo i Reti ebbero contatti con gli Etruschi, dai quali impararono l’alfabeto, e con i Celti. Etnicamente però sono da considerare indigeni alpini. I tratti caratteristici del loro orizzonte culturale sono le abitazioni, la ceramica, i monili, armi e zappe particolari e l’arte di decorare lamine di bronzo a sbalzo.

I reperti collegati alle pratiche religiose dei Reti si riferiscono a divinità mediterranee e orientali, tra cui la dea Reitia e il dio dell’agricoltura Saturno. Posto che i Reti non fossero una classe sacerdotale, come vuole un’affascinante teoria, l’ethnos retico era assai più vasto della regione romana poi chiamata Rezia. In effetti non si sa moltissimo dei Reti, anche perché gli scrittori romani non erano interessati ai loro usi e ai costumi quanto al loro vino. Già nel II secolo a.C. Catone Quinto infatti ne loda la qualità e era apprezzato persino dagli imperatori romani. Su un frammento di brocca in bronzo del V secolo a. C. trovata a Sanzeno è raffigurata una scena erotica che è stata interpretata come un accoppiamento rituale dionisiaco: i Reti assegnavano al succo d’uva fermentato e ai suoi effetti liberatori un valore trascendente.

Gli elementi di continuità tra la cultura dei Reti e la nostra vanno ricercati soprattutto nel rapporto con l’ambiente, con gli spazi coltivati e con la montagna, ove i Reti conducevano il bestiame all’alpeggio. Sempre in montagna, praticavano spettacolari cremazioni e roghi votivi – con sacrifici di animali e di vasellame – che ricordano i roghi accesi a tutt’oggi sulle vette, in Alto Adige. I pascoli, i campi e i monti, erano di proprietà comune; le comunità montane si riunivano in assemblee per trattare i loro affari e per eleggere i capitribù. Tutti questi principi saranno poi assimilati dalle Carte di Regola dei liberi comuni tridentini. Ma è forse nell’edilizia che si trovano le analogie più sorprendenti: l’ubicazione degli antichi villaggi retici, l’orientamento e la forma delle case – quadrangolari, a modulo unifamiliare, con vani a schiera – ricordano quelli di molti moderni borghi montani.

Come suonasse la lingua indoeuropea dei Reti nessuno ce lo può dire, ma è lecito supporre che risentisse al contempo di influenze germaniche e, poi, latine. Un altro elemento culturale, che il Trentino ha ereditato in pieno, è proprio questo duplice orientamento verso il polo danubiano e quello padano: tra la terra dei Teutoni e quella dei limoni.

A Catone il Vecchio si deve la prima menzione del termine “retico”, utilizzato per identificare un vino molto apprezzato, come confermano diverse fonti che ne indicano la zona di produzione nella terra natia del “dotto” Catullo, nel veronese, alle falde del territorio dei Reti. I limiti dell’area assegnata a tali popolazioni sfuggono peraltro ad una dettagliata identificazione. Le notizie tramandate dalle fonti greche e romane sono infatti scarse, incidentali e talvolta parzialmente contraddittorie. Alla stirpe dei Reti sono ad esempio riferiti, oltre ai Camuni, Rucanti e Cotuanti, anche i Leponzi che sotto il profilo archeologico si collocano però nel gruppo culturale di Golasecca dell’Italia nord occidentale, appartenente, dal punto di vista linguistico, alla famiglia celtica. Sulla base di quanto riferiscono in particolare Strabone e Plinio il Vecchio, è comunque possibile, seppure a grandi linee, circoscrivere nell’area alpina centro-orientale il territorio dei Reti, dove Polibio colloca uno dei quattro valichi alpini, “tutti scoscesi”. Secondo le sommarie indicazioni disponibili la zona attribuita ai Reti si estendeva, da sud verso nord, oltre Como e Verona fino alle terre solcate dal Reno e al lago di Costanza e, verso est, fino al Norico abitato dai Celti. Rilevando come i Reti fossero divisi in molte comunità Plinio attribuisce Verona agli Euganei e ai Reti, mentre Trento, Feltre e l’ignota Berua sono definite come centri (oppida) dei Reti (Plin., Nat. Hist., III, 130). D’altro lato, Pompeo Trogo e Tolomeo qualificano Trento come città dei Galli, ma si tratta di una connotazione che non trova riscontro nella documentazione archeologica. Allo stato attuale delle ricerche infatti, nel tratto settentrionale del bacino dell’Adige non sono stati identificati stanziamenti celtici, seppure a fronte del diffuso manifestarsi in tutta l’area alpina retica, a partire dal IV sec. a.C. fino ai tempi della romanizzazione nel I sec. a.C., di rilevanti influssi celtici, per quanto riguarda soprattutto elementi d’ornamento e d’armamento. Livio riferisce che “senza dubbio” dagli Etruschi discendono i Reti, mentre Plinio sembra assumere al riguardo una posizione di maggiore prudenza, affermando che “si reputa” una derivazione dei Reti dagli Etruschi, espulsi dalla pianura padana nell’area alpina in seguito alla pressione dei Galli (Plin., Nat. hist., III, 130). Il nome dei Reti è collegato a quello di un condottiero capostipite – Reto – in modo implicito nell’opera di Plinio ed espressamente in quella di Pompeo Trogo. La considerevole diversità fra le testimonianze archeologiche del territorio etrusco e di quello alpino ascritto ai Reti e il riconoscimento in quest’ultimo ambito di specifici aspetti culturali, con fenomeni di continuità insediativa, di culto e in aspetti della produzione ceramica, escludono peraltro chiaramente una filiazione dei Reti dagli Etruschi. Il significativo influsso di questi ultimi nell’area alpina centro orientale è comunque documentato ampiamente soprattutto nel contesto della cultura di Fritzens-Sanzeno che deve il proprio nome a due località, ubicate rispettivamente nella Valle dell’Inn e nella Valle di Non. Tale aspetto culturale si sviluppa, fra la seconda metà del VI e il I sec. a.C., sulla base dei precedenti sostrati culturali locali (hallstattiano e di Luco/Laugen-Meluno/Melaun), in gran parte dell’area retica, corrispondente agli odierni Trentino-Alto Adige/Südtirol, Tirolo e Bassa Engadina. Sulla base di questa coincidenza territoriale, una parte degli studiosi considera la cultura di Fritzens-Sanzeno come l’espressione materiale dei Reti o di buona parte di essi. Ai contatti con il mondo etrusco si devono l’adozione in tale ambito di caratteri dell’alfabeto nord-etrusco, l’importazione di beni suntuari, l’assunzione dell’ideologia del simposio e del banchetto e di elementi iconografici di matrice etrusco-italica. Nel territorio alpino centro orientale attribuito dalle fonti ai Reti si riconoscono altri aspetti culturali accanto a quello più evidente di Fritzens-Sanzeno, identificabile innanzitutto in base alla peculiare produzione ceramica, alla diffusione di caratteristici attrezzi in ferro quali zappe/vomeri e chiavi, di oggetti d’ornamento e di iscrizioni nell’alfabeto detto di Sanzeno, nonché nella tipologia edilizia (nelle cosiddette case retiche) e nelle manifestazioni di culto. In Valcamonica, Valtellina, Valtrompia, Valsabbia e nelle Giudicarie si localizza il gruppo Valcamonica, caratterizzato dalla presenza di boccali con appiattimento in corrispondenza dell’ansa e di iscrizioni camune. Nelle Prealpi venete si distingue il Gruppo di Magrè, dove interagiscono influssi della Cultura di Fritzens-Sanzeno e veneti mentre a nord ovest si localizza il Gruppo alpino della Valle del Reno. Nelle brevi menzioni delle fonti antiche i Reti sono descritti come popolazioni rese selvagge dall’asprezza del loro territorio, bellicose, armate di asce amazonie, dedite a scorrerie, un pericoloso ostacolo al libero transito attraverso le Alpi. Difficile è stabilire fino a che punto queste notizie corrispondano alla realtà o siano condizionate da intenti encomistico-propagandistici che si colgono apertamente nell’opera di Strabone. La politica espansionistica di Roma a danno dei popoli alpini, coronata nel 16-15 a.C. con le guerre retiche, condotte vittoriosamente da Tiberio e Druso, i figli di adottivi di Augusto, è infatti legittimata con la necessità di rendere più sicuri e agevoli al transito i valichi alpini. Le fonti non chiariscono purtroppo quali fossero i caratteri ritenuti distintivi dei Reti, se propriamente etnici, linguistici, politici, geografici, religiosi od altro e non è accertabile se le popolazioni così chiamate avessero un qualche senso di appartenenza e identità. Queste lacune informative hanno determinato l’insorgere fra gli studiosi di un dibattito, tuttora in corso, che riguarda l’effettiva connotazione dei Reti. Verso la fine del 1960 da Osmund Menghin è stata avanzata l’ipotesi che non fossero una popolazione o un’unità culturale o politica ma che potessero essere un gruppo di culto. Questa tesi si è alimentata anche per la presenza in Valpolicella di un’epigrafe che menziona un sacerdote dei sacri luoghi dei Reti, per l’assonanza del loro nome con quello della divinità veneta di Reitia e per la problematica assenza del loro nome sul Tropaeum Alpium, il monumento eretto nel 7-6 a.C. a La Tourbie di Monaco per celebrare la vittoria di Augusto sui popoli alpini. Depone d’altro lato a favore dell’effettiva connotazione etnica dei Reti, non solo quanto riferiscono le fonti già citate, ma anche un importante documento epigrafico scoperto in Turchia, in Caria, nel Sebasteion di Afrodisia che menziona in epoca giulio-claudia un ethnos dei Reti. La diffusione differenziata di monete romane repubblicane, fibule, recipienti in metallo e ceramica di derivazione padana ci informa che una parte delle popolazioni insediate nel territorio retico fu romanizzata attraverso un processo di progressiva acculturazione e che le guerre retiche coinvolsero solamente alcune aree dove tali testimonianze sono sporadiche e dove si rileva la brusca interruzione di abitati e luoghi di culto.

Riferimenti bibliografici per questa parte a: Franco Marzatico, voce “Reti” della Enciclopedia Archeologica, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, in corso di stampa; Opere di storici greci e romani come Strabone e Plinio il Vecchio, Pompeo Trogo, Livio, Cassio Dione Cocceano.

 

SCRITTURA E LINGUA

Una delle conquiste più importanti della storia culturale dei Reti è la comparsa della scrittura attorno al 500 a.C. Essa si diffuse presso i Veneti e nelle Alpi con la mediazione degli Etruschi. Venne utilizzata soprattutto per il culto, per iscrizioni votive nei santuari e su steli funerarie.

La maggior parte delle iscrizioni conservate consiste in pochi segni di alfabeto. Viene così confermato chesolo la minima parte della popolazione, soprattutto i sacerdoti, conoscesse la scrittura e la lettura.

Sulla base di 300 iscrizioni scritte in alfabeto sinistrorso”nordetrusco” rinvenute in territorio retico, si distinguono quattro varianti grahe: l’alfabeto di Lugano, di Sondrio-Valcamonica, di Bolzano (o di Sanzeno) e di Magrè questi ultimi due di origine non indoeuropea. La presenza di questi diversi alfabeti rivela l’esistenza di varie lingue e dialetti.

Tavola con alfabeto reticoLa tavola con l’alfabeto retico chiamato di Bolzano e Sanzeno

 

MUSEI RETICI

Museo Retico

Centro per l’archeologia e la Storia antica della Valle di Non

Si propone come un attivo polo di comunicazione culturale e strumento per la valorizzazione della storia antica del territorio: un luogo di incontro aperto alle realtà locali, destinato a rivestire un ruolo di primo piano nell’offerta culturale e turistica delle valli del Noce e del Trentino. Nell’edificio, di impronta decostruttivista, progettato dall’architetto trentino Sergio Giovanazzi, è ospitata l’esposizione permanente del ricco patrimonio archeologico locale. Sono inoltre presenti sale per video, incontri e conferenze, spazi per mostre temporanee, attività e laboratori didattici, la sezione della biblioteca archeologica “Pia Laviosa Zambotti” di Trento, oltre ad una vasta area esterna per l’archeologia sperimentale. All’interno del museo è visitabile anche la mostra “Sanzeno Antica” che illustra la storia delle ricerche archeologiche effettuate dal XIX secolo ai giorni nostri. L’edificio è situato all’imbocco della passeggiata naturalistica che porta nell’affascinante gola del santuario di S. Romedio. Il percorso espositivo si snoda nel “pozzo del tempo” secondo settori cronologici e tematici di particolare rilevanza, attraverso un suggestivo itinerario che accompagna il visitatore in un ideale viaggio nella profondità del tempo, dalla preistoria all’alto medioevo. In un contesto di sussidi tecnologici e multimediali si susseguono le testimonianze dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, quelle dei primi agricoltori neolitici, dei metallurghi dell’età del Rame e dei luoghi di culto dell’età del Bronzo. Un ruolo importante è riservato alle evidenze del popolo dei Reti, noto dalle fonti romane, di cui si espone la vasta cultura materiale: splendide produzioni artistiche, oggetti legati al mondo del culto, attrezzi da lavoro, semplici utensili della vita quotidiana. Le varie tappe della romanizzazione della valle sono scandite da realizzazioni statuarie, da ricchi corredi funerari, da documenti epigrafici e dai segni di nuovi culti provenienti da Oriente. Infine il tragico epilogo della morte dei santi martiri di Anaunia anticipa la definitiva affermazione del cristianesimo. L’allestimento evocativo e coinvolgente, curato dall’architetto torinese Maurizio Buffa, l’esposizione dei reperti venuti in luce in decenni di ricerche o consegnati da privati a seguito di scoperte fortuite, le suggestioni visive e sonore provocano l’emozione profonda di un percorso della memoria sospeso tra presente e passato, alla riscoperta delle nostre radici.

Link:http://www.visitvaldinon.it/it/da-vedere/arte-e-cultura/museo-retico/

 

MUSEO RETICO COIRA (CH)

Il Museo retico in Svizzera

Il museo di storia dei Grigioni si trova nella Casa Buol, nella città vecchia di Coira. La casa patrizia barocca è stata costruita nel 1675 dal barone Paul von Buol di Strassberg e Rietberg (1634-1697), che apparteneva classe dirigente delle Tre Leghe. I piani interni sono collegati da ampie scale, che collegano lo scantinato, il pianterreno con un passaggio per le carrozze, due piani signorili, nonché il piano per la servitù e la soffitta.

Come anche in altri Cantoni svizzeri, la fondazione del Museo è avvenuta, verso la fine del XIX secolo, per frenare il crescente esodo di preziosi beni culturali. Il giurista, storico e politico Peter Conradin von Planta-Zuoz (1815–1902) ha quindi ordinato la creazione di una fondazione a favore di un «Museo grigionese per la scienza e l’arte». L’8 giugno 1872 ha potuto essere inaugurato il Museo al pianterreno della Casa Buol. Inizialmente comprendeva una biblioteca, una collezione naturalistica e una collezione di antichità.

Link:http://www.raetischesmuseum.gr.ch/Il_Museo_retico.1652.0.html

 

I ROMANI

Appare evidente che il Trentino è un territorio frequentato dall’uomo in modo sostanzialmente continuativo sin dalle epoche più antiche, dal Paleolitico all’età romana. La regione si trova in una posizione geografica tale da contribuire a creare un collegamento tra l’area padana e i territori posti a nord delle Alpi, anche grazie alla sua natura geomorfologica. La Val Venosta, con il passo Resia ha favorito i contatti con l’Engadina e la Germania sud- occidentale, mentre la val Pusteria, con il passo del Brennero, quelli con l’area alpina orientale.

La presenza del lago di Garda ha facilitato le comunicazioni con la pianura padana; l’Adige, che attraversa la regione longitudinalmente, e le molte valli che attraversano il territorio trasversalmente, hanno sempre permesso facili comunicazioni e scambi culturali tra le popolazioni locali e quelle non solo limitrofe ma anche di paesi lontani. Basti pensare alle conchiglie forate di columbella e cyclope, trovate presso il Riparo Dalmeri, risalenti al Paleolitico superiore, oppure all’ossidiana, originaria dell’isola di Lipari, trovata presso il sito di La Vela, risalente al neolitico medio. Questi elementi spiegano l’abbondanza di ritrovamenti nel Trentino centro occidentale, in corrispondenza della valle dell’Adige, val di Non, valli Giudicarie e Basso Sarca. Ad una economia basata, in un primo momento, sulla caccia e sulla raccolta, si aggiunse, a partire dal neolitico, l’allevamento e l’agricoltura. Anche la viticoltura, a partire dall’età del Ferro, doveva essere praticata, soprattutto nel Trentino meridionale, ad esempio in Val Lagarina. Al riguardo varie sono le citazioni di autori romani, tra cui Floro, Svetonio, Plinio, che parlano del famoso “vino retico”. Interessante è anche il rinvenimento di botti a Nomi, località Bersaglio, risalente alla seconda età del Ferro.

Come si è visto, nel passaggio tra la seconda età del Ferro e l’epoca romana la cultura locale non è stata soppiantata totalmente da quella romana, ma spesso ha mantenuto, in alcune sue manifestazioni, la sua originalità, ad esempio negli oggetti di uso quotidiano in ferro, oppure nell’abitudine di porre su pesi da telaio o altri utensili d’uso comune sigle in alfabeto retico e nell’abitudine di seppellire i defunti abbigliati come da vivi, con gli abiti fissati da una fibula. Analizzando i materiali romani è possibile notare come, tranne oggetti di particolare prestigio, quelli di prima necessità come tegole e pesi da telaio, siano stati prodotti in officine locali, disseminate su tutto il territorio (le maggiori testimonianze provengono dalla valle dell’Adige e dalla valle di Non) ed inoltre con medesime caratteristiche. Ad esempio i pesi da telaio rinvenuti a Prà del Rover sono del tutto simili a quelli trovati a Mezzocorona, superando i 900 grammi, misura non facilmente riscontrabile al di fuori del Trentino. Si è ipotizzato che questa particolarità sia dovuta all’uso di un filato più pesante, evidentemente in rapporto al clima alpino.

I dati archeologici raccolti fino a questo momento sembrano quindi convalidare l’idea, proposta ormai dalla maggior parte degli studiosi, che dal II/I sec. a.C. non ci siano stati in Trentino grossi episodi bellici e che sostanzialmente i rapporti con i romani siano stati abbastanza tranquilli. Le successive invasioni barbariche spinsero la popolazione a nascondere talvolta i propri beni, dando così origine a veri e propri “tesoretti” come quello rinvenuto a Zambana, nella Valle dell’Adige.

I primi contatti intercorsi tra la popolazione retica trentina e i Romani risalgono al III/II sec. a.C., quando questi ultimi, dopo aver conquistato le regioni orientali del Mediterraneo, incominciarono a penetrare nelle zone a nord del Po. Ciò avvenne però, come ormai ritengono quasi tutti gli studiosi, non con l’impiego della forza, tranne qualche raro caso, ma attraverso pacifici scambi commerciali. Probabilmente, all’inizio, vennero stipulati dei trattati con le classi dirigenti locali che accoglievano di buon grado la mentalità e i costumi romani. I primi contatti sicuri tra le popolazioni a nord del Po e i Romani risalgono al 225 a.C., quando i Galli Cenomani fornirono aiuti ai Romani contro i Galli Insubri e i Boi che avevano organizzato una spedizione armata contro Roma. Nel 197 a.C. vennero stipulati patti rispettosi delle autonomie locali a cui fanno riferimento vari scrittori romani tra cui Livio e Cicerone che, nell’orazione Pro Balbo, pronunciata nel 56 a.C., parla di trattati federativi come quelli dei Cenomani e di altre popolazioni, che a quell’epoca erano ancora in vigore. Solo agli inizi del I sec.a.C. venne attribuita alla regione a nord del Po, denominata Transpadana o Cisalpina, una organizzazione politico-amministrativa complessiva, con la concessione (probabilmente nell’89 a.C.) dello ius Latii (cioè del diritto latino, condizione giuridica propria delle colonie latine) a tutte le comunità che ancora non l’avevano. Esse venivano così a godere di autonomia amministrativa rispetto a Roma di cui erano alleate e alla quale avevano l’obbligo di fornire un contingente militare e di osservare fedeltà nella politica estera. Nel 49-42 a.C., attraverso la lex Roscia o la lex Rubria o la lex Iuliamunicipalis i Cisalpini ottennero la cittadinanza romana.

Sorsero così i Municipia, formati da una città e dal territorio circostante, i cui abitanti erano cittadini romani. A capo vi erano quattro magistrati di cui due erano i supremi amministratori della giustizia, che convocavano il consiglio e le adunanze elettive della popolazione ed amministravano le finanze. Altri due magistrati controllavano il consiglio municipale, formato dai consiglieri ed avevano ampi poteri in relazione al culto pubblico. Ogni cinque anni venivano eletti dei magistrati che provvedevano al censimento della popolazione e potevano espellere i personaggi che si erano resi indegni.

 

DAL RETICO AL RETOROMANZO ATTRAVERSO IL LATINO VOLGARE

DEFINIZIONE DI RETOROMANZO

Si dice dell’insieme delle lingue e dei dialetti neolatini stabiliti nell’area occupata dagli antichi Reti. Questa zona linguistica periferica della Romània è stata attraverso i secoli molto intaccata, ridotta e frantumata, e di essa sopravvivono oggi i tre gruppi dialettali neolatini della zona alpina e subalpina centro-orientale: le parlate dei Grigioni, del Friuli e di alcune valli dolomitiche, note come dialetti ladini(➔ladino).

Coscienza ladina

Nel XIX secolo nasce una coscienza nazionale ladina diffusa. Esiste da tempo la convinzione che il ladino è una lingua propria. Nel 1870 presso il seminario a Bressanone nasce l’unione “Naziun Ladina”. Nel 1905 ad Innsbruck viene fondata la “Uniun Ladina”. Vengono pubblicati i primi giornali ladini e i “calëndri” (calendari-cronaca).

 

 

I LADINI

Il termine ladino fa il suo ingresso nel mondo della ricerca con il linguista Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907)1, che fu il primo ad analizzare in modo sistematico le lingue parlate nelle Alpi ed a riconoscere legami, affinità e comuni caratteri delle parlate Friulane, Dolomitiche e Romance; a raggrupparle in un unico gruppo, il retoromanzo e a formulare la teoria dell’unità Ladina. Tale teoria rimanda ad un comune antico substrato di questi idiomi, più antico della loro matrice latina, che lo stesso Ascoli identificava in un ipotetico “protolinguaggio Retico”.

Dopo la caduta dell’Impero Romano la regione di parlata retoromanza si estendeva ininterrotta dagli attuali Grigioni al Friuli. Nei secoli seguenti le popolazioni alpine, frammentate e prive di strutture politiche e sociali comuni, rimasero però soggette a forti pressioni demografiche, culturali e linguistiche da parte delle popolazioni circumalpine.

Nel V secolo gli Alemanni cercarono ripetutamente di espandere la loro presenza oltre i confini dei territori attribuiti loro da Teodorico il Grande, entrando in conflitto con le popolazioni romaniche, che però riuscirono a mantenere la loro identità culturale. L’inclusione delle aree alpine nel regno dei Franchi e poi nell’ impero carolingio cambiò ulteriormente l’assetto politico e sociale della regione. Il potere politico venne centralizzato e dato in feudo ad aristocratici di origine germanica. Cominciò così un lento processo di assimilazione che porterà, attraverso i secoli, ad una graduale riduzione dell’area retoromanza.

Il ladino deriva dall’idioma parlato dalle popolazioni del Norico rifugiatesi nelle vallate delle Alpi orientali a partire dal V secolo, fuggendo dalle invasioni dei Rugi, e degli Slavi. Questi gruppi, unitisi alle preesistenti etnie celtiche (breoni), erano indicati dalle popolazioni di lingua tedesca come Welsch (opponendoli a sé stessi e ai Windisch, gli Slavi), mentre essi stessi si autodefinivano latini (da cui il termine dialettale ladin). Il termine si diffuse a partire dal XVIII secolo anche negli ambienti tedeschi (Ladinisch) per designare le popolazioni in via di germanizzazione soggette al Tirolo.

I ladini sono una minoranza linguistica che vive a cavallo sulle frontiere regionali, nazionali ed internazionali che attraversano le Alpi; i ladini delle Dolomiti formano il gruppo centrale dei locutori nelle Alpi ed infine i ladini svizzeri (i romanci) i Grigioni ed i ladini friulani del Friuli.

Il ladino dolomitico costituisce una serie di dialetti appartenenti al gruppo delle lingue retoromanze uniti da strette affinità, e parlati da circa 30.000 persone nella parte orientale dell’arco alpino, nella cosiddetta isola linguistica ladino-dolomitica. I parlanti vivono in un territorio che ha come centro naturale il massiccio del Sella: la Val Badia con Marebbe, la Val Gardena, in provincia di Bolzano, la Val di Fassa con Moena, in provincia di Trento, Livinallongo del Col di Lana, Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo, in provincia di Belluno.

Un tempo facevano parte della stessa unità amministrative nel 1923 la Val di Fassa è stata aggiunta alla provincia autonoma di Trento, mentre la Val Gardena, la Val Badia e Marebbe sono state assegnate alla provincia di Bolzano; Invece Ampezzo, Livinalongo e Colle Santa Lucia sono state incorporate nella provincia di Belluno. Ognuna di queste comunità ha un diverso grado di tutela a seconda delle province in cui sono ubicate. Cosi, mentre alle comunità di Bolzano sono assicurate il diritto alla valorizzazione delle proprie iniziative ed attività culturali di stampa e ricreative nonché il rispetto della toponomastica e delle tradizioni, analoghe ai due gruppi maggiori (l’italiano ed il tedesco), al gruppo presente in provincia di Trento è garantita una tutela stabilita dallo Statuto e dalla legislazione regionale; i ladini del Veneto fruiscono delle misure di tutela prevista dalla legge n.482/99.

Le scuole delle Valli Ladine di Gardena e di Badia presentano una loro particolarità rispetto al sistema nazionale e dal 1948 vige in queste scuole il cosiddetto sistema paritetico: le materie sono impartite nelle lingue italiane e tedesca per lo stesso numero di ore complessive settimanali con la presenza della lingua ladina come lingua strumentale e in parte come materia di insegnamento .

Ultimamente si è intensificata la collaborazione inter ladina realizzata dall’Unione Generela de Ladins (l’organizzazione federativa delle unioni ladine nelle Dolomiti) e dagli istituti culturali ladini attraverso la pianificazione linguistica volta a realizzare un codice scritto unitario e comune a tutta l’area del Sella e di Ampezzo chiamato ladin dolomitan (ladino standard).

Secondo Ascoli venne così a crearsi a cavallo delle Alpi centrali una estesa regione geopolitica dell’Impero Romano, in cui le popolazioni romanizzate mantenevano però un sostrato linguistico, etnico e culturale proprio della componente retica. Questa vasta area retoromanza si sgretolò con la fine dell’Impero Romano e con le invasioni barbariche; fu poi in gran parte assimilata dalle culture delle altre popolazioni, per cui solo alcune “isole” nell’arco alpino centrale mantengono ancora le caratteristiche retoromanze, che l’Ascoli chiama ladine. È ancora l’Ascoli nei suoi Saggi Ladini a identificare queste aree residue, che vanno dalla Svizzera romanza ai ladini del Gruppo di Sella, a quelli che egli chiama i ladini occidentali e cioè ai nonesi e ai solandri.

Va sotto il nome diquestione ladina un lungo dibattito (protrattasi per oltre cent’anni) circa la posizione del retoromanzo nell’ambito delle lingue sorte dal latino: dibattito dai toni anche aspri, ove talvolta la linguistica trovava supporto in forti motivazioni nazionalistiche. Di seguito si riportano le principali tappe del percorso storico che definisce la ladinità nonesa e solandra come riassunte dallo studioso Fabrizio Da Trieste, poeta noneso contemporaneo

 

 

Testimonianze di altri studiosi riguardo alla relazione tra parlate anauniche e ladino:

  • 1855 in ambito locale, Giorgio Sulzer2 colloca il “dialetto della Val di Non in Tirolo (Nones)” nell’elemento celto-vallico tra i dialetti consimili al Ladino della Engadina;

  • 1873 con Graziadio Isaia Ascoli di Gorizia iniziano sia la “Questione ladina” che gli studi dialettologici. Lo studioso dimostra che i dialetti retoromanzi formavano in origine una unità linguistica autonoma da collocare alla pari dello spagnolo, del francese, del romeno. Denomina tale parlata “ladino” dalla parola ladins che aveva trovato in Marebbe . Individua pure tre “anfizone” ladine di cui una comprendente le Valli di Non e di Sole qualificandone la parlata come “nonese”. Vigilio Inama di Fondo sostiene la tesi ascoliana e parla di romanizzazione dell’antica lingua retica;

  • 1917 per il linguista Carlo Salvioni i ladini sono da collocare nel sistema gallo-padano in cui gli alpino-tridentini costituiscono il gruppo dei “dolomitici”. La nuova tesi accende forti polemiche sull’italianità o meno delle parlate alpine;

  • 1935 il glottologo e linguista italiano Carlo Tagliavini sviluppa ancor più lo studio dei dialetti ladini che considera strettamente connessi con l’alto italiano. Per le valli del Noce parla di varietà ladineggianti del Trentino occidentale;

  • 1938 per reazione dei linguisti svizzeri alle tendenze nazionalistiche dei seguaci del Carlo Salvioni (1858-1920) il retoromanzo viene riconosciuto come quarta lingua ufficiale della Confederazione Elvetica;

  • 1940 il filologo e critico Giulio Bertoni confuta le tesi battistiane affermando che il ladino può o deve essere considerato come lingua. Anche i linguisti esteri e l’italiano Merlo si contrappongono alle tesi battistiane;

  • 1953 il linguista Carlo Battisti (1882-1977) afferma che il ladino è intimamente collegato con l’italiano settentrionale di tipo arcaico;

  • 1962 Giovan Battista Pellegrini3 attraverso la toponomastica e testi antichi, individua caratteristiche ladine in aree più ampie;

  • 1964 il linguista Enrico Quaresima di Tuenno (1883- 1969) nel “Vocabolario anaunico e solandro” evidenzia le concordanze con le altre parlate ladine, ma aggiunge qualche cosa in più, “l’anaunosolandro presenta anche spiccate caratteristiche sue proprie che lo distaccano nettamente dai dialetti ladini”;

  • 1965 Renato Barbagallo ammette l’unità del ladino concepita dall’Ascoli;

  • 1982 Giovan Battista Pellegrini scrive: “Essi sono assai poco conosciuti poiché non hanno mai fatto tanto chiasso, non hanno avuto buoni maestri circa la loro ”latinità” e mancano per lo più di un adeguato appoggio politico, in Italia essenziale per qualsiasi decisione (finora esso è stato chiesto, ma sotto voce). Ben s’intende che tale osservazione è valida se “ladino“ continuasse ad essere, come pel passato, un concetto linguistico. In tal caso (… ) dovrebbero essere giudicati ”ladini” – non so ancora se come una minoranza non riconosciuta – buona parte dei Bellunesi, Cadorini, Agordini e Zoldani, ai quali potrebbero aggregarsi altri ”Ladini” ascoliani della provincia di Trento: Fiammazzi, Cembrani, Nonesi, Solandri.”

 

CARTINE CHE TESTIMONIANO LA LADINITA’ DELLE VALLI DEL NOCE

Lingue romanze in Europa

Le lingue romanze in Europa

Cartina etnica Impero Austro-Ungarico 1880

Cartina etnica Impero Austro-Ungarico 1880

Cartina documento Dominici

Cartina documento Caterina Dominici

Cartina Trentino divisa per dialetti a cura del dottor Bauer Università di Salisburgo

Cartina Trentino divisa per dialetti a cura del dottor Bauer Università di Salisburgo

La cartina sopra riportata è ricavata da un progetto ALD dell’Università di Salisburgo del prof. Roland Bauer e prof. Hans Goebl; c’è la possibilità di ascoltare circa 850 termini pronunciati nelle varie zone del Ladino Dolomitico collegandosi al link http://ald.sbg.ac.at/ald/ald-i/index.php?id=m001&lang=it.

L’Istitut Cultural Ladin Majon de Fascegn attraverso il sito (http://www.istladin.net/web/default.asp), da la possibilità di visionare documenti del passato, al link http://www.scrin.net/web/menu.asp. Riferendosi alla sottocategoria “Audio”, Massimo Paternoster ha analizzato tutte le registrazioni e ha utilizzato alcune di queste nelle interviste svolte.

 

In particolare:

http://www.scrin.net/web/scheda.asp?categoria=3&scheda=134&lingua=2&traccia=id134 (Moenat)

http://www.scrin.net/web/scheda.asp?categoria=3&scheda=27&lingua=2&traccia=id27 (Brach)

http://www.scrin.net/web/scheda.asp?categoria=3&scheda=101&lingua=2&traccia=id101 (Cazet)

Per approfondire lo studio delle parole ed il loro significato sono usati i seguenti vocabolari:

Gardenese – tedesco: http://db2.pixxdb.net/voc_gh/lad/index.html

Fassano – italiano: http://dilf.ladintal.it/

Friulano – italiano: http://www.friul.net/dizionario_nazzi/index.php

Romancio (ch) – italiano:http://www.pledari.ch/miopledari/

A questo link http://www.ladintal.it/ si può trovare il lavoro svolto in collaborazione con gli istituti di cultura ladini, progetto Spell (http://www.spell-termles.ladinia.net/it.html)

Il servizio per la pianificazione della lingua ladina ha l’incarico di elaborare una lingua di scrittura comune per i ladini. Il progetto è sostenuto dagli istituti ladini “Micurà de Rü” e “majon di fascegn”, dall’Istitut Pedagogich Ladin nonché dall’Union Generela di Ladins dla Dolomites.

 

 

RICERCHE GRAMMATICALI

Due le fonti:

1) la tesi di laurea di Bertagnolli Veronica (Ca’ Foscari, 2007/2008) sullo studio del nones come lingua e non come dialetto;

2) la ricerca di Franziska Maria Hack, University of Oxford, pp. 137-164, reperibile come “Investigating Interrogation in the Northern Italian Area – or What Corpora Can Tell Us and Which Questions they Leave Open” al link http://corpus.revues.org/1871

 

RICERCA DI MASSIMO PATERNOSTER

Massimo Paternoster ha intervistato persone in varie località del Trentino, sottoponendo loro alcuni quesiti, fatto ascoltare per una o più volte l’audio di una registrazione e cercare individuare la località della parlata.

Geograficamente le domande sono state poste ad abitanti di tutti i comuni della Val di Non, in 5 comuni della Val di Sole, a Mezzolombardo, Trento e Pergine.

Le risposte sono state: “Val di Non”, “Val di Sole”, “Vervò”, “Revò”, “Fondo”, “Alta Anaunia”, “Castelfondo”, “Bepi da Raina”, “io questo l’ho sentito parlare ancora”, “mi chest el conosi”, “chesto l ai sentù amò”, sto cì me mpar de conoserlo” e una serie simile di affermazioni. Dopo la risposta dell’intervistato svelata la vera località di provenienza della parlata, cioè di Moena o Pera di Fassa, grande è stato lo stupore e quasi si notava un rifiuto. Solo dopo aver spiegato loro il motivo per il quale erano stati intervistati e la consultazione di documenti che dimostravano la veridicità delle registrazioni, si capacitavano della verità, cioè che il “nones” in realtà era “ladino moenat” e “ladino brach”.

A Pergine, l’intervistato, dopo l’ascolto di G.S. di Pera di Fassa, ha risposto: “fassano”…, subito dopo, ha fatto questa affermazione: …” no il fassano è pieno di gne gni gno gna, …no! Non è fassano”… e dopo un’altra riflessione ha affermato …”nones!”…aggiungendo …”Fà na roba, te vai sù en Val de Non e te ghe domandi ai nonesi, te vedrai che el te dise subito….”.

Il link del sito interntet de L’istitut ladin Majon de Fascen da dove sono state ricavate le registrazioni è http://scrin.net/web/contenuti.asp?lingua=1&categoria=3.

Note:

1 linguista, glottologo e glottotetaitaliano. Fu senatore del Regno d’Italia nella XVI legislatura; fondatore della dialettologia retoromanza; fondatore della rivista Archivio glottologico italiano

2 Testo del 1855 “Dell’origine e della natura dei dialetti comunemente chiamati romanici messi a confronto coi dialetti consimili esistenti nel Tirolo”

3 autore della “carta dei Dialetti”, 1977